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Le ossessioni di Stanley
Peter Bogdanovich
Testimonianze uniche sulla vita di un genio. Maniaco della perfezione.

Peter Bogdanovich Il cinquantunenne Peter Bogdanovich, che firma l'articolo in queste pagine, è una delle figure più insolite di Hollywood. A Manhattan studia da attore ma poi decide di dedicarsi alla critica cinematografica. Seguendo l'esempio di Francois Truffaut nei primi anni Settanta passa dietro la macchina da presa e firma L'ultimo Spettacolo, che lo trasforma in autore di culto. Tra gli altri film girati in seguito ricordiamo E Tutti Risero e Paper Moon, pellicole raramente accolte dal successo commerciale. Spesso non disdegna il ritorno alla carta stampata.

Subito dopo la sua morte, avvenuta nel sonno per un attacco cardiaco, persino i tabloid di New York hanno posto l'accento sulla visione cupa che il regista ha sempre avuto della vita. "Riservato", "solitario", "strano", "misterioso" e "freddo" sono stati gli aggettivi più usati per descriverlo. E' vero che i 13 film da lui realizzati in oltre quarant'anni offrono una visione disincantata, sardonica e pessimistica dell'umanità, ma tutti coloro con i quali ho parlato - amici di una vita, colleghi e familiari - hanno disegnato un quadro molto più complesso di Stanley: certo riservato, meticoloso ed egocentrico, ma allo stesso tempo estroverso, sereno ed affettuoso.

Figlio di un medico del Bronx, Kubrick si dimostrò ben presto un ragazzino precoce. A 17 anni faceva già parte dello staff di fotografi della rivista Look, ma sin dall'inizio la sua passione fu il cinema. Cominciò da autentico tuttofare, finanziando, dirigendo, producendo, scrivendo, filmando e montando tre brevi documentari - Day of the fight (Il Giorno del Combattimento, 1949), Flying Padre (Il Padre Volante, 1951), The Seafarers (I Naviganti, 1953) - continuando sulla stessa strada coi suoi primi due lungometraggi a basso costo, Fear and Desire (Paura e Desiderio, 1953), finanziato da uno zio, e Killer's Kiss (Il Bacio dell'assassino, 1955).

La sedia di Kubrick

La sedia di Stanley Kubrick. Fotografia di Matthew Modine.

Nel 1954, con due matrimoni alle spalle, Kubrick si trasferì a Los Angeles dove creò, con l'amico James B. Harris, una casa di produzione grazie alla quale girò le sue prime pellicole da professionista: The Killing (Rapina a Mano Armata, 1956), con Sterling Hayden, e Paths of Glory (Orizzonti di Gloria, 1957), con Kirk Douglas, una forte denuncia antimilitarista. Durante le riprese di quest'ultimo film, Kubrick s'innamorò della pittrice e attrice tedesca Christiane Harlan, la sposò ed ebbe due figlie (un'altra, Christiane l'aveva avuta da un precedente matrimonio). Quei due film non ebbero successo al botteghino, ma bastarono perché i critici e i capi degli studios lo salutassero come un nuovo genio del cinema. Nel 1960 Kirk Douglas lo richiamò a sostituire il regista di Spartacus, l'unico film interamente hollywoodiano in tutta la carriera di Kubrick e il primo ad avere successo di cassetta. Odiò quell'esperienza. Deluso dall'ambiente e in preda ormai ad un'autentica fobia per il volo, partì per l'Inghilterra con tutta la famiglia. Da allora, non si sarebbe mai più spostato lontano da casa.

Nei 38 anni che seguiranno, girerà appena otto film. Nel periodo compreso fra il controverso adattamento di Lolita, il romanzo di Vladimir Nabokov (1962), e il feroce ma popolare film sul Vietnam Full Metal Jacket (1987), Kubrick è divenuto una sorta di mito del cinema mondiale grazie a tre film di enorme succeso: Il Dottor Stranamore, ovvero come imparai a non preoccuparmi e ad amare la bomba (1964), una black comedy sulla guerra fredda; 2001: Odissea nello Spazio, (1968), esempio di fantascienza mistica; Arancia Meccanica (1971), sulla violenza giovanile, da un romanzo di Anthony Burgess. Pur avendo vinto il New York Film Critics Circle Award come miglior film, Arancia Meccanica ebbe critiche feroci in Inghilterra; si disse che l'opera favoriva il moltiplicarsi della criminalità giovanile. Ferito dagli attacchi, Kubrick ritirò dal mercato la pellicola che, da allora, non è piĆ¹ disponibile sul mercato britannico, neppure in video.

Il successo commerciale e di critica di questi tre film, assieme al suo distacco da Hollywood, conferirono a Kubrick un alone di leggenda e gli diedero un'enorme potere sull'industria cinematografica. Il regista fu molto turbato quando Barry Lyndon, il film in costume girato nel '73 e ispirato a un'epopea di Thackeray, pur apprezzato dai critici, ebbe uno scarso successo commerciale. Il suo film successivo fu quello più commerciale, Shining (1980), basato su un racconto di horror di Stephen King e interpretato da una grande star, Jack Nicholson. Al momento della morte, a 70 anni, Kubrick aveva appena ultimato Eyes Wide Shut, con Cruise e Nicole Kidman.

Non posso dire di aver conosciuto Kubrick, avendogli parlato solo due o tre volte brevemente al telefono agli inizi degli anni Settanta. All'epoca stava preparando Barry Lyndon e mi chiamo all'improvviso. Aveva una voce molto giovanile, con un accento del Bronx sommesso ma inequivocabile e un disarmante tono di modestia. Mi chiese cosa pensavo di Ryan O'Neal, che diressi in What's up Doc?. Le figlie di Kubrick erano entusiaste di quel film e premevano sul padre affinché scritturasse O'Neal. Persino durante quella breve conversazione notai come le sue due ossessioni, cinema e famiglia, andassero di pari passo. E così rimasero fino alla fine. Ecco la storia della sua vita, attraverso il racconto di chi gli ha vissuto accanto.

Kubrick sul set di Dr. Stranamore

Sul set di Dr. Stranamore: ovvero come prese in giro la guerra fredda.

MATTHEW MODINE (attore; protagonista di Full Metal Jacket): Un giorno gli dissi: "Ho una barzelletta per te. Tu muori e..." "Non è divertente", rispose. "Lascia che te la racconti. Dunque, anche Steven Spielberg muore." "Steven muore? Questa sì che è divertente." "Tu muori e vai in Paradiso. Anche Steven Spielberg è appena morto e viene accolto dall'Arcangelo Gabriele che gli dice: "Dio ha apprezzato moltissimo i tuoi film e vuole esser certo che ti troverai bene qui da noi. Per qualsiasi cosa tu abbia bisogno, chiamami pure." E Steven: "Vedi, mi sarebbe tanto piaciuto incontrare Stanley Kubrick. Pensi di poterlo fare?" Gabriele lo guarda e fa: "Ma Steven, con tutte le cose che potevi chiedermi, perché proprio questa? Lo sai che Stanley odia i meeting." "Ma tu mi avevi detto che per qualsiasi cosa..." "Mi dispiace davvero, ma questo non mi è possibile." Così, Gabriele lo accompagna in giro per il Paradiso e a un certo punto Steven vede un tizio con la barba che se ne va in giro in bicicletta e con la divisa militare. Allora Steven dice a Gabriele: "Mio Dio, guarda, quello è Stanley Kubrick! Possiamo salutarlo?" Gabriele prende da parte Steven e gli dice: "Quello non è Stanley Kubrick; è Dio e crede di essere Stanley Kubrick..." A Stanley questa barzelletta piaceva moltissimo.

GERALD FRIED (amico di gioventù di Kubrick e compositore; autore delle musiche di Day of the Fight, Fear and Desire, Killer's Kiss, The Killing e Orizzonti di Gloria): Quando eravamo ragazzi giù nel Bronx, lui era uno di noi, brillante, nevrotico, pieno di talento, uno al quale piaceva giocare al softball e rimorchiare le ragazze. A quei tempi non c'erano scuole di cinema, per cui imparavamo guardando i film. All'uscita di sala si discuteva, anche se discutere voleva dire ascoltare Stanley prendere in giro il sentimentalismo privo di gusto della maggior parte dei film.

PAUL MAZURSKY (regista; attore in Fear and Desire): Era talmente deciso a ottenere ciò che voleva... I soldi che lo zio aveva investito in Fear and Desire erano finiti, così partimmo in auto dalle San Gabriel Mountains, dove giravamo, per andare da zio Martin. Guidava Stanley, Frank Silvera ed io stavamo dietro. Ci volevano altri cinquemila dollari per finire il film. "Avrò quei soldi, non importa come. Potete starne certi", disse, quindi sputò sull'interno del parabrezza. Non lo dimenticherò mai. E i soldi arrivarono.

GERALD FRIED: Conoscevo Toba [Metz], la sua prima moglie. Fu un matrimonio legale, ma erano ancora due ragazzi. Credo non ci sia mai stato un legame profondo tra loro. Invece Ruth, la seconda, sapeva tenergli testa. Faceva danza - era una donna brillante e avvenente - e spesso bisticciavano, ma secondo me erano perfetti l'uno per l'altra. Lui scrisse per lei la scena del ballo in Killer's Kiss. Lei disegnava anche i costumi. Fui sorpreso e addolorato quando si lasciarono.

JAMES B. HARRIS (regista e produttore; co-produttore con Kubrick di The Killing, Orizzonti di Gloria e Lolita): Ruth era in fase declinante come ballerina e voleva fare l'art director. Stanley la assecondava, ma lei non capiva perché sulla porta del nostro studio ci fossero il mio nome e quello di Stanley ma non il suo. Così si separarono e lui partì. Lasciammo le nostre mogli contemporaneamente. E decidemmo di partire insieme per Los Angeles: volevamo starcene un po' da soli. Non eravamo solo soci, ma grandi amici. A Stanley bastava leggere qualcosa su un argomento di suo interesse per diventarne un grande esperto. Comprava dei libri sul poker, se li studiava e si sedeva al tavolo da gioco sicuro come il più abile dei professionisti.

fotogrammi

Fear and Desire, 1953; Killer's Kiss, 1955; Rapina a Mano Armata, 1956

COLEEN GRAY (attrice; co-protagonista in The Killing): Me lo ricordo con la tuta mimetica, gli scarponi pesanti da contadino, i capelli folti, calmissimo. Io me ne stavo lì, in attesa di istruzioni, ma non succedeva nulla. "Quand'è che mi dirà che devo fare?", pensavo. Non lo diceva mai e ciò mi rendeva insicura. A tratti sembrava molto preoccupato. Forse il fatto che mi sentissi insicura era giusto per la parte, quella di una ragazza insicura.

MARIE WINDSOR (attrice; co-protagonista in The Killing): Stanley era introverso. Era molto tranquillo e sul set non l'ho mai sentito gridare con la troupe o chiunque altro. Quando gli veniva un'idea per me, si limitava a fare un cenno col dito: allora ci allontanavamo dal set e mi diceva cosa voleva. Una volta che me ne stavo seduta sul letto venne da me: "Voglio che tu muova gli occhi mentre leggi." Non aveva ancora trent'anni, ma si capiva che già nutriva una totale fiducia in se stesso. Quando il film uscì, venne a casa nostra per un party. Non si toglieva mai quei pantaloni marrone chiaro da operaio. Li portava anche in quell'occasione. Non l'ho mai visto indossare altro.

RICHARD ANDERSON (attore e produttore; direttore dei dialoghi e attore in Orizzonti di Gloria): Aveva sempre le occhiaie e i capelli arruffati. Ed era bravissimo a scacchi: spesso ci giocava sul set. Era molto attento alle motivazioni delle persone, alla loro psicologia.

RICHARD ANDERSON: Stanley era cotto di Christiane. Diceva che non aveva mai provato niente di simile prima.

CHRISTIANE KUBRICK: Mi vide in tv a Monaco. Chiamò il mio agente e mi scritturò. Ci incontrammo in uno studio, poi venne a un ballo in maschera al quale anch'io partecipavo. Era l'unico a non essere mascherato. Era confuso, ma a un certo punto s'imbatté in un mio cugino che l'aiutò a trovarmi in tutta quella confusione.

JAMES B. HARRIS: S'innamorarono. Lei si sentiva impacciata perché non parlava bene l'inglese. Era una bellissima attrice. Da allora sono sempre stati insieme: è stata una grande storia d'amore.

FREDERIC MORTON (autore; giornalista; era sul set di Orizzonti di Gloria): Quel film fu una svolta. Prima di girarlo, sembrava piuttosto cupo, con quei grandi occhi che gli davano uno sguardo lugubre. Era particolarmente sensibile con tutti. Quando doveva dare le istruzioni agli attori, invece di "Fai questo", diceva loro "Vuoi fare questo?"

RICHARD ANDERSON: Una volta che Kirk Douglas gli rispose a brutto muso sul set, Stanley disse: "Ascolta Kirk, non farlo più davanti a tutti, d'accordo?" Ma lui ammirava Kirk. Diceva: "Quest'uomo ricorda sempre le battute". Stanley era abilissimo nell'ottenere ciò che voleva. Una volta che aveva girato una scena una quarantina di riprese, si presenta da lui Jimmy Harris e gli dice: "Stanley, è l'una e non si riesce a concludere. Dobbiamo interrompere." Fu l'unica volta in cui lo vidi esplodere. "Così non va", urlò. "Continueremo finché non è perfetta!" Fece 84 riprese. Credo che l'abbia fatto apposta perché tutti capissero il messaggio.

CHRISTIANE KUBRICK: A Monaco ci spostavamo insieme: io avevo ancora degli impegni, lui stava ultimando il suo film. Entrambi stavamo divorziando dai rispettivi coniugi. I vestiti glieli comprava ancora sua madre, erano molto chic e gli davano un tocco di arruffata eleganza. Ben presto, però, fu chiaro che non si curava di quello che indossava. In seguito le figlie tentarono di farlo vestire un po' meglio, ma era un caso senza speranza.

GERALD FRIED: Quando facemmo Orizzonti di Gloria lui era già Stanley Kubrick. Era dura, perché era già sicuro di sapere tutto. Inoltre era un batterista e la colonna sonora di Orizzonti di Gloria è stata la prima con le sole percussioni. Voleva ascoltare l'effetto sonoro di ogni mitragliatrice prima dell'inserimento nella pellicola. Un giorno ci eravamo dati appuntamento alle 2 meno 10 per giocare a tennis al Central Park e il nostro campo era prenotato per le 2. Mi disse: "E' meglio che ci affrettiamo perché se non arriviamo almeno un minuto prima, il campo lo danno a qualcun altro". "Per l'amor di Dio, Stanley, tienile per te le tue paranoie", risposi. Fatto sta che qualcuno arrivò un minuto prima e si prese il campo. La morale è che, se ti preoccupi quanto basta, prima o poi la tua paranoia viene appagata. E lui era uno che si preoccupava.

TONY CURTIS (attore; co-protagonista in Spartacus): Stanley non si arrendeva mai. Ricordo che chiese 15 o 20 comparse per una breve scena e l'aiuto regista gli disse che se ne era già parlato con la produzione e si era deciso di ridurre il numero delle comparse. Allora Stanley disse: "Invece no, bisogna raddoppiarlo". Non permetteva a nessuno di dirgli come fare il film.

CHRISTIANE KUBRICK: Spartacus fu un film difficile. Erano tutti attori famosi e, dato che lui era così giovane, lo trattavano con una certa arroganza. Così lui divenne arrogante a sua volta.

ARLISS HOWARD (attore; recitò una parte in Full Metal Jacket): Ricordo queste sue parole: "La cosa più difficile quando si fa un film è mantenere un atteggiamento coerente. Perché è questo che permette di fare il film, mentre se non lo mantieni il film va a rotoli". Mi disse che, mentre girava Spartacus quello che lo sorprendeva era vedere a quante persone fosse consentito di esprimere opinioni sul contenuto del film.

fotogramma

Orizzonti di Gloria, 1957; Spartacus, 1960; Lolita, 1962; Il Dr. Stranamore, 1964

SHELLEY WINTERS (attrice; co-protagonista in Lolita): Era consapevole del fatto che gli attori sono esseri delicati. Discuteva la scena e non ti rendevi conto che ti stava dirigendo solo il giorno dopo, vedendo le copie rapide. Quasi ti veniva da dire: "Ehi, sono stata proprio intelligente a pensarci". In realtà, era stato Stanley a fartici arrivare con la sua abilità. Come nel ballo che feci con James Mason, una specie di danza sexy sudamericana. In effetti lui non mi aveva detto di ballare in maniera sensuale, ma ero stata io a decidere di flirtare con Mason durante il ballo e Stanley aveva semplicemente detto: "Così va bene." A volte, mentre provavo, neanche mi accorgevo che stava guardando. Se ne stava nascosto, e guardava.

CHRISTIANE KUBRICK: Gli piaceva lavorare con le donne e gli riusciva bene. A casa era attorniato da donne e sul set la componente femminile era numerosa. Sua madre era un angelo, una donna straordinaria, dolce e intelligente. Stanley amava i genitori, forse più la madre che il padre, perché lei era più al corrente di cose di cinema e attualità. Quindi sapeva un sacco di cose sulle donne.

JAMES B. HARRIS: La paura di volare gli venne quando era ragazzo. Aveva preso il brevetto di pilota e andava spesso a Teterboro per volare su quei monomotore con cui aveva una certa familiarità. Un giorno, in fase di decollo, uscì di pista e quasi si schiantò contro il recinto. Si era scordato di attivare uno dei magneti. Divenne un'ossessione. Pensava che se persino lui, che pure era così meticoloso in tutto, si era dimenticato di compiere quell'operazione, voleva dire che un pilota poteva commettere un errore. Se poteva sbagliare lui, poteva farlo chiunque.

Sul set di Eyes Wide Shut

Sul set di Eyes Wide Shut con Nicole Kidman e Madison Eginton. Una stretta di mano era un'alta ricompensa.

KEN ADAM (production designer; ha partecipato a Dr. Stranamore e a Barry Lyndon): In lui c'era una certa ingenuità, ma molto presto ti accorgevi che aveva un cervello eccezionale, una specie di computer. L'unica cosa che non conosceva era il design. Ne era affascinato, ma io stesso mi sono scoperto a dover giustifcare con lui praticamente ogni singolo disegno. Accadde in particolare con la sala da guerra di Dottor Stranamore. Avevo iniziato a buttar giù schizzi mentre ne discutevamo, e Stanley pareva molto impressionato. Pensai: "E' una battaglia facile". Tre settimane dopo aveva cambiato idea. Poiché il disegno iniziale era simile ad un anfiteatro a due livelli, disse improvvisamente: "Che ci faccio con un secondo livello? Dovrà essere pieno di comparse e non saprei proprio come utilizzarle, dunque è meglio che tu ci ripensi". Cominciai a ridisegnare la sala, con lui in piedi dietro di me per tutto il tempo. Quando gli prospettai la soluzione triangolare, disse che considerava il triangolo la forma geometrica più forte. Così, i destini del mondo si giocarono attorno ad un tavolo circolare, come fosse una mano di poker. Cambiava idea molto spesso. Dopo un paio di giorni di riprese, per esempio, non era soddisfatto di come Peter Sellers interpretava il ruolo del comandante del bombardiere B-52, così scritturò Slim Pickens e ideò la scena in cui quest'ultimo cavalca in stile rodeo l'atomica lanciata sulla base missilistica sovietica. Fu un'esperienza eccitante, ma al tempo stesso capii che, beh, con lui un film bastava e avanzava. Aver a che fare con Stanley sedici ore al giorno significava perdere ogni capacità di resistenza, col rischio di smarrire la fiducia in se stessi.

JOHN MILIUS (regista, sceneggiatore, produttore; ebbe rapporti telefonici con Kubrick a partire dagli anni '80): Una volta, terminato Dottor Stranamore, l'areonautica militare lo contattò: tutti i pezzi grossi dello Strategic Air Command e lo stesso Generale Le May volevano conoscerlo. Ma lui aveva paura d'incontrarli; temeva che fossero arrabbiati con lui, che volessero rimproverargli qualcosa. Quando lo seppi gli dissi: "Stanley, come hai potuto avere simili paure? Volevano solo renderti omaggio. Il film gli è piaciuto." Rispose: "Lo so, è stata una sciocchezza. Avrei voluto andare a Washington e incontrarli." Amava le storie di guerra, le divorava letteralmente e diceva: "Questo amore per la guerra mi rassicura, perché so di essere un codardo." Era affascinato dall'onore e dallo spirito di corpo.

LOUIS BLAU (avvocato; legale di Kubrick dal 1958 al 1999): Fece 2001: Odissea nello Spazio perché pensava che fino ad allora nessuno avesse mai fatto un film di fantascienza realmente scientifico. Quasi tutti i film, diceva, erano pura fantasia. Mi disse che avrebbe cominciato a documentarsi per cavarne fuori qualcosa di buono. Cominciò dall'Abc e alla fine ne sapeva abbastanza per parlarne da pari a pari con i grandi astronomi del mondo, molti dei quali ormai chiamava ormai per nome.

KEIR DULLEA (attore; co-protagonista di 2001: Odissea nello Spazio): Sapeva esattamente quel che voleva. Spesso mi invitava a cena, nella sua bella casa. Invitava studiosi d'arte, autori, intellettuali. Conosceva come nessun altro le varie discipline. Era come una cipolla: togliendo uno strato ne venivano fuori altri due.

fotogrammi

2001: Odissea nello Spazio, 1968; Arancia Meccanica, 1971; Barry Lyndon, 1975

CHRISTIANE KUBRICK: Quando eravamo giovani, organizzavamo party ogni week-end. Credo fosse un pretesto per parlare con la gente con cui stava lavorando, perché così poteva portare il discorso sugli aspetti sui quali voleva che riflettessero. Non era pianificato, era qualcosa che gli veniva naturale. "Vieni a cena" diceva, e magari pensava: "Voglio che tu rifletta su questo." Cercavamo di mantenere i party su un piano formale, elegante, ma poi gli ospiti si presentavano in abiti casual, così abbandonammo ogni formalità. Stanley aveva un sogno segreto: fare il cuoco. Era molto bravo. La cucina era sempre piena di un fumo azzurrino e di troppe padelle sporche, ma lui ci sapeva fare. Preparava quei piatti americani che gli europei trovavano così sorprendenti, come gli hamburger. Poi ci fu il periodo dei sandwich, di cui divenne un maestro. Li preparava a strati sempre più alti.

KEIR DULLEA: Se Stanley fosse stato una piovra con tanti tentacoli, li avrebbe usati per tenere la macchina da presa, curare il trucco, costruire il set. Credo invece che non avrebbe recitato in nessuno dei suoi film.

JERRY LEWIS (attore-regista-autore; impegnato nel montaggio di un film nello stesso studio in cui Kubrick stava montando 2001): Io ero nella mia sala di montaggio verso l'una del mattino quando lui arrotolandosi una sigaretta mi disse: "Posso guardare?" Ed io: "Certo che puoi. Vuoi vedere un ebreo degradarsi? Rimani qui." Fu quella notte che coniai l'espressione "Non si può lucidare uno stronzo". L'avevo appena detto che Kubrick mi guardò e disse: "Sì che si può, se prima l'hai surgelato."

STEVE SOUTHGATE (responsabile delle attività tecniche Warner Bros. in Europa; ha lavorato a tutti i film di Kubrick da Arancia Meccanica in poi): Conosceva l'industria del cinema. Sapeva tutto dei doppiatori, dei direttori del doppiaggio, degli attori; aveva rapporti con registi stranieri che supervisionavano il suo lavoro perché lui non poteva essere sul posto per farlo direttamente. Dovevamo girare per tutte le sale per assicurarci che le luci di proiezione fossero giuste, che il suono fosse perfetto, le copie a posto, gli schermi puliti. Sembrava che lavorasse 24 ore al giorno. Poteva essere quasi inavvicinabile, ma poi ti chiamava a tutte le ore della notte. Se qualcuno criticava un suo film, lo prendeva come un fatto personale. Era anima e corpo coi suoi film.

KEN ADAM: Per lui le reazioni violente verso Arancia Meccanica furono uno shock, anche se fino a quel momento era stato il suo film di maggior successo.

JAN HARLAN (produttore; cognato di Kubrick; produttore esecutivo di tutti i suoi film a partire da Barry Lyndon): Si sentì profondamente frainteso e insultato per Arancia Meccanica.

LOUIS BLAU: A un certo punto, ottenne un ottimo contratto per un film. Commentò: "Per fortuna non sanno che l'avrei fatto anche gratis."

JAN HARLAN: Per i nostri film spendevamo in una settimana quello che si spende in un giorno per un grande film. Per questo potevamo permetterci di girare per quasi un anno intero.

KEN ADAM: Era un patriarca gentile e per molti versi insicuro. Stanley diceva che aveva fatto Barry Lyndon per me ma che non poteva permettersi i soldi necessari per il mio compenso. Allora gli dissi: "Stanley, questo non è un buon modo di iniziare un discorso." Litigammo e mi disse: "Vuol dire che mi rivolgerò al secondo miglior production designer." Mi sentii sollevato. Cinque settimane dopo mi chiamò al telefono dicendomi che il secondo miglior production designer sembrava non capire quello che lui voleva, che i soldi non erano più un problema e insomma se volevo partecipare al film. Alla fine mi ammalai. Ero esausto, poiché lui aveva l'abitudine di controllare con me le riprese giornaliere quando era notte fonda. A Stanley bastavano quattro ore di sonno, ma a me no. Così tornai a Londra e la cosa lo crucciò moltissimo. Mi scrisse lettere toccanti.

MARISA BERENSON (attrice; co-protagonista di Barry Lyndon): Dovevamo essere sempre pronti col trucco, i costumi, le acconciature... A volte capitava di dovercene restare seduti un'intera giornata in attesa della luce giusta. Era molto impegnativo perché lui era un perfezionista ed esigeva la perfezione anche dagli altri. Non era il massimo in fatto di elogi o simili. Quando aveva qualcosa d'importante da dirmi mi scriveva delle lettere a mano. Aveva un senso dell'umorismo particolarmente asciutto e arguto. Era riservato. Era molto sensibile e timido.

CHRISTIANE KUBRICK: Non era affatto timido. O meglio, lo era solo nelle circostanze ufficiali. Prendiamo il suo discorso di accettazione del Griffith Award, nel 1997. L'aveva scritto molto bene, ma non riusciva a pronunciarlo. Finalmente riuscimmo a farglielo registrare su nastro, e alla fine disse: "E' meglio che non lo veda, altrimenti non glielo mando." Lo mandò e quando in seguito lo vide quasi si soffocava dalle risate. Ma fuori dell'ufficialità era un'altra persona. Una volta che qualcuno gli piazzò un microfono sotto il naso, disse: "Ho la mente vuota. Non parlo, se non volete che dica qualche banalità." Ecco perché non concedeva interviste. Diceva: "Perché lavorare duramente a un film e poi rendermi ridicolo da solo?"

JOHN MILIUS: Stanley non si curava del tempo. Ti chiamava nel cuore della notte se aveva voglia di farlo. Gli dicevo: "Stanley, è notte fonda." E lui: "Sei sveglio, no?" Non parlava mai meno di un'ora. Discuteva di qualsiasi argomento. Aveva le sue teorie. Pensava che la maggior parte dei film fossero dei bluff, e allo stesso modo giudicava la maggior parte di coloro che fanno cinema.

CHRISTIANE KUBRICK: Vedeva sempre un sacco di film. Gli piacevano Ingmar Bergman, Woody Allen e diversi film spagnoli, italiani e giapponesi. Si vantava di odiare certe pellicole. "E' la peggiore che abbia mai visto", ma poi continuava a guardarla.

JOHN MILIUS: Era molto vulnerabile alle critiche. Non era del tutto soddisfatto di Barry Lyndon. Era dell'idea che il pubblico non l'avesse capito, che si fosse annoiato vedendolo. Penso che, dopo quel film, fosse convinto che nessuno gli avrebbe più permesso di farne un altro. In apparenza la cosa che lo disturbava di più era il mancato successo commerciale di Barry Lyndon. Poi girò Shining. Ricordo che Jack Nicholson disse: "Sono contento che sia finita. E' stato durissimo."

JOHN MILIUS: Prima di girare Full Metal Jacket, mi fece un sacco di domande sul Sud-Est asiatico. Gli risposi che tanto non sarebbe mai andato in nessun posto vicino a quella regione, ma lui voleva sapere ogni piccolo dettaglio: com'era il cibo, com'era l'aeroporto, se c'era il pericolo di perdere i bagagli. Si stava preparando come se fosse in procinto di partire. Lo indirizzai a un fornitore di attrezzature militari che avrebbe dovuto procurargli le uniformi e tutto il materiale necessario: un tipo di Oklahoma City che mi telefonò per dirmi quanto fosse orgoglioso di lavorare per un film di Stanley Kubrick. Mi venne da pensare che, di lì a sei mesi, quell'uomo sarebbe stato pronto per una medaglia. E infatti Stanley non gliene risparmiò una: "Sei sicuro che il colore di queste divise sia lo stesso dell'ultima consegna? Le ho guardate e vedo che c'è una differenza."

CHRISTIANE KUBRICK: La gente è convinta che fosse una specie di ottuso dittatore. Invece lui chiedeva sempre l'opinione altrui su tantissime cose. "Che ne pensi di questo? Credi che avrei dovuto farlo diversamente?"

LEE ERMEY (veterano del Vietnam Marine Corps; consulente tecnico e attore in Full Metal Jacket): Stanley mi disse che non capiva gli attori. Non aveva amici tra gli attori, erano solo compagni di lavoro, e li considerava viziati. Li implorava perché recitassero decentemente. Metà del tempo gli attori la passavano litigando con lui. A Vince D'Onofrio non piaceva lo sguardo da matto che Stanley gli diceva di fare; voleva farlo diversamente. Il problema è che per Vince quello era il primo film. Dunque lui diceva a Stanley come, secondo lui, doveva essere quello sguardo. Cominciarono a discutere animatamente, finché Stanley disse: "Ascolta, fallo come dico io, poi cambiamo pellicola e giriamo come dici tu." Quando girarono come voleva Vince, non c'era nessuna pellicola nella macchina da presa.

Tom Cruise e Nicole Kidman al funerale

Ciak finale: Tom Cruise e Nicole Kidman vanno al funerale a Londra.

ADAM BALDWIN (attore in Full Metal Jacket): Eravamo un gruppo di giovani attori. Lui era già alle prese con una sua piccola guerra privata. Non aveva granché rispetto per nessuno di noi. Ci faceva strisciare sull'amianto e in mezzo alla polvere di carbone senza curarsi se potevamo ferirci. Io pensai a fare la mia parte, ma per un paio di noi fu proprio dura. Facevamo una serie di cinque o sei riprese e poi le rivedevamo in video. Lui di volta in volta commentava: aveva una cura particolare per ogni singola immagine. Dopo un paio di mesi capii quanto fosse importante riuscire a lavorare a quel ritmo, ripetendo una scena tutte le volte che lui lo chiedeva. C'è una scena in cui siamo addossati a un muro e si sentono i carri armati sparare: bene, solo per quella ci abbiamo messo tre settimane e mezza.

ARLISS HOWARD: Di sé diceva: "Di un film so fare praticamente tutto: piazzare le luci, registrare il sonoro, trovare la giusta collocazione dei microfoni." Capitava che entrasse in sala e dicesse: "Questa luce non va bene, mancano due aperture." "No," gli rispondevano, "abbiamo controllato." Ma lui insisteva, loro ricontrollavano e alla fine aveva ragione lui. Una cosa diceva di non saperla fare: "Non so recitare." Quello che proprio non gli andava giù era veder sprecare il tempo. Per esempio quando un attore non sapeva le battute. Un giorno mi raccontò un episodio avvenuto durante la lavorazione di Spartacus. Tutti gli attori inglesi bisbigliavano, lui era sicuro che parlassero di lui e la cosa lo mandava in paranoia. Laurence Olivier, Peter Ustinov, Charles Laughton: tutti bisbigliavano. Allora si mise di nascosto alle loro spalle e scoprì che stavano semplicemente ripassando le battute. Mi disse: "Questo gli attori americani non lo fanno. Non imparano le battute."

MATTHEW MODINE: Una volta gli chiesi perché faceva tutte quelle riprese. Mi rispose che lo faceva perché gli attori non sapevano le battute. Poi mi parlò di Jack Nicholson: "Jack era uno che, durante le pause, andava in giro borbottando le battute. Le imparava sul set. Si cominciava a girare e dopo le prime riprese, tre, quattro, cinque al massimo, ecco il Jack Nicholson che tutti conoscono e che fa la felicità della maggior parte dei registi. Poi si continuava fino alla decima, quindicesima ripresa, allora cominciava a capire le battute, il loro significato, e a non accorgersi più di quello che diceva. Alla trentesima o quarantesima ripresa le battute erano diventate qualcosa di diverso. Così devo impiegare il tempo facendo più riprese perché gli attori imparino quello che dovrebbe essere il loro mestiere."

fotogrammi

Shining, 1980; Full Metal Jacket, 1987; Eyes Wide Shut, 1999

ADAM BALDWIN: Passavamo il tempo giocando a scacchi, facendo solitari, fumando. Quando si giocava a scacchi, quasi sempre ti faceva fuori in 15 mosse. Una volta riuscii a farlo sbagliare e vinsi la partita: ne vincevo una su 50. Mi disse: "L'unica ragione per cui hai vinto è che ho sbagliato perché ti considero scarso." E se ne andò, col suo ghigno ironico.

LEE ERMEY: Se qualcuno si faceva male non sembrava preoccuparsene più di tanto, ma se succedeva a un animale allora era diverso. Un pomeriggio, giravamo in esterni, su un terreno dove c'era un mucchio di spazzatura e legname. Stanley chiese agli uomini di portar via quella roba. Mentre lo facevano, senza volere uccisero un coniglio selvatico. Per Stanley fu un colpo. Passò il resto della giornata in disparte, chiuso in se stesso.

JAN HARLAN: Non lasciava mai la sua casa se non era proprio indispensabile. Lavorare nel suo studio e guardare alla finestra Christiane dipingere: ecco cosa gli piaceva.

CHRISTIANE KUBRICK: Si annoiava lontano da casa. Gli piaceva circondarsi di telefoni, televisori, fax. Abbiamo anche uno zoo, con tanti animali. Li amava, così come ha amato le figlie e poi i nipotini. Aveva tanti amici, ma nessuno nel mondo del cinema. Parlava con tutti meno che con i giornalisti.

KEN ADAM: Sua figlia Vivian stava scrivendo le musiche di Full Metal Jacket e prima aveva girato un documentario su Stanley durante le riprese di Shining. Ma Stanley era opprimente con lei, così cinque anni fa Vivian decise di andare a vivere da sola a Los Angeles. Voleva molto bene al padre, ma lui voleva controllare ogni sua azione. Lei ha avuto il coraggio di dirgli che poteva farcela da sola.

CHRISTIANE KUBRICK: Stanley fu molto addolorato quando Vivian decise di andarsene.

SYDNEY POLLACK (regista, produttore, attore; recita in Eyes Wide Shut): Già dalle prime riprese di Eyes Wide Shut avevo affrontato il mio ruolo in maniera diversa da come Stanley lo voleva. La mia idea era che dovesse essere molto duro col personaggio di Tom Cruise, perchè lui aveva fatto qualcosa che io disapprovavo. Stanley pensava che dovevo cercare di manovrare Tom ed essere più disponibile nei suoi confronti. Aveva una vera adorazione per Tom e Nicole. Quando penso a Stanley vedo l'ombra del suo sorriso, un lampo di malizia nei suoi occhi. Dava l'impressione di avere il diavolo in sé mentre, con la massima calma, ti faceva delle domande. Leggeva di tutto e conosceva ogni aspetto del mondo del cinema, perfino gli incassi delle sale di tutto il mondo negli ultimi anni.

TERRY SEMEL (condirettore della divisione cinema Warner Bros): Ha fatto Eyes Wide Shut con un budget più modesto rispetto a quelli che sono gli standard attuali. Ha sempre girato con troupe ridottissime e tariffe giornaliere molto basse.

SYDNEY POLLACK: Cruise mi svegliò un giovedì mattina per dirmi che secondo lui era un gran film. Chiamai Stanley e parlammo un'ora e mezza circa, e gli dissi di come Tom fosse entusiasta. Poi parlai con Terry e Bob Daly, copresidente della Warner, e anche loro erano entusiasti. Quattro giorni dopo Stanley morì.

STEVE SOUTHGATE: Due giorni prima di morire, mi mandò a Las Vegas col primo trailer di Eyes Wide Shut per la ShoWest Convention. Dato che era la prima volta che qualcuno vedeva un brano del film, voleva esser certo che la proiezione fosse perfetta. Mi diede istruzioni dettagliate: dovevamo liberare la sala alle 3 del mattino, assicurarci che se ne fossero andati tutti e provare assieme all'addetto della proiezione. Questa fu l'ultima conversazione con lui: "Ho piena fiducia in te per Las Vegas. Fammi sapere le reazioni. Chiamami durante la proiezione - porta con te il cellulare - voglio sentire le reazioni." Morì mentre ero sull'aereo.

TERRY SEMEL: Gli ho parlato due volte il giorno che è morto. Mi aveva chiamato lui e ogni volta avevamo parlato per circa un'ora. Era euforico. La seconda conversazione, avvenuta la mattina presto del giorno della sua morte, la dedicò al riesame minuzioso di una serie di aspetti di marketing. Era loquace ed eccitato come mai lo avevo sentito.

CHRISTIANE KUBRICK: Era stanchissimo, d'altra parte non ha mai dormito tanto in tutta la sua vita. Credo che abbia esagerato con quell'ultimo film. Dormiva sempre meno. Era figlio di un medico, ma non ha mai voluto vederne uno. Quando non stava bene decideva da sé le medicine da prendere oppure telefonava agli amici, e questa è per me la sola grossa sciocchezza che abbia mai fatto.

JAN HARLAN: Fortunatamente le autorità locali ci hanno permesso di seppellirlo nel suo giardino. Per la contea dell'Hertfordshire è stata la seconda volta, la prima fu con George Bernard Shaw.

LOUIS BLAU: La cerimonia funebre è avvenuta con molta discrezione e in tipico stile Kubrick. E' sepolto fra i suoi animali: cani, gatti, scoiattoli.

MATTHEW MODINE: Al funerale fui lieto di vedere che veniva sepolto nel suo giardino. Avrei voluto parlare, ma prima di me l'avevano fatto Tom Cruise, Nicole Kidman e Steven Spielberg e c'era un programma da seguire. Fui sorpreso nel sentire quanto poco lo conoscessero, almeno secondo me, a giudicare dalle cose che dicevano. La persona con la quale avevo trascorso diciotto mesi della mia vita era completamente diversa da quella descritta al funerale. Due sole eccezioni, Jan Harlan e sua figlia Vivian. Quest'ultima aveva letto dei brani dal diario di suo padre e in particolare aveva voluto soffermarsi su un punto: lui aveva cercato un limite all'amore per i suoi cari, ma ogni volta che gli era sembrato di aver raggiunto quel limite si era accorto che c'era ancora qualcosa da dare.

JAMES B. HARRIS: Non ho parlato al funerale. Credo che non sarei riuscito a mantenere la calma necessaria. Sono rimasto seduto ad ascoltare tutte quelle persone e ho capito che in realtà non lo conoscevano. Sentivo di essere il solo, oltre ai suoi familiari, ad averlo conosciuto. Ascoltavo tutte quelle parole e pensavo: i capi degli studios, le grandi star, le celebrità, e io sono quello che giocava a ping pong con lui e che gli e' stato vicino nei matrimoni, nei divorzi e tutto il resto. Sapendo quanto fosse perfezionista, potrei pensare che si è ucciso per quel film.

SYDNEY POLLACK: Dicono che aveva parecchie fobie, che non voleva viaggiare. La verità è che ha vissuto in un paradiso e non c'era ragione perché si muovesse. Quello era il suo Eden.

L'Espresso, 22 Luglio 1999

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