Critica d'epoca
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Shining
Una recensione di Giovanni Grazzini del Corriere della Sera, 1980

"Kubrick è più ambizioso d'un sociologo o d'uno psicanalista orecchiante: mira al metafisico, al lamento sulla fragilità della creatura umana, assediata dall'Oscuro, e al fascino dell'Enigma." Con queste parole Giovanni Grazzini glorifica il genio kubrickiano, ma ritiene che l'opera sia inferiore al talento del suo autore, il quale graffia e lascia il segno qua e là, impressiona con la sua bravura, ma difetta nel complesso d'ispirazione poetica. Prodezza di un'intelligenza non comune, il film è vivo solo grazie alle invenzioni registiche, ma è malservito dagli attori: la recitazione di Jack Nicholson è "poco consona all'astratto furore della composizione."

 
Shining
di Giovanni Grazzini

I dispettosi che vogliono applicare al Natale la legge dei contrari sanno cosa fare: rispondono alla festa della speranza con la sagra del pessimismo. Vanno a vedere Shining e subito dopo si sparano. Chi ancora avesse serbato un briciolo di fiducia nella ragione dell'uomo, supponendola capace di dirigere il traffico dell'inconscio, verrebbe infatti subito convinto da Stanley Kubrick che pesta acqua nel mortaio; la nostra mente partorisce mostri e arma le mani, la vita è un labirinto, l'Ignoto è abitato da gelidi spettri. E avere un sesto senso serve a pochino: può accadere che non ci impedisca di morire ammazzati.

Per giungere a queste afflitte conclusioni, non proprio esplosive, Stanley Kubrick fa un horror di lusso. Prende il best-seller Una splendida festa di morte di Stephen King (che già scrisse Carrie) e affida la parte di protagonista allo spiritato Jack Nicholson. Costruisce in studio un immenso Hotel Overlook - che non è soltanto un nostro Albergo Belvedere, è anche un Albergo Stregare - lo arreda in stile art déco, lo seppellisce fra la neve, e intona il Dies irae. Siamo insomma più all'inferno che nel Colorado. Con Nicholson nei panni d'uno scrittore a corto d'ispirazione, il quale ha accettato la proposta di custodire durante l'inverno l'hotel, insieme alla moglie e al figlioletto Danny, nella speranza che il silenzio e la solitudine portino consiglio. Quando è stato assunto, Jack è stato avvertito che dieci anni prima il guardiano impazzì e squartò la famiglia, ma ha fatto spallucce; si sente forte di testa, e alla moglie, vedi caso, i film del terrore piacciono tanto. Quanto al piccolo Danny, è certo una bambinata quella di parlare ogni tanto, cambiando la voce, con un altro se stesso. Si annuncia, insomma, una bella invernata. Infatti subito Danny vede fiotti di sangue e nei corridoi deserti i fantasmi di due bambine che lo invitano a giocare. E, disubbidendo, entra nella camera 237, dove qualcuno forse tenta di strangolarlo. Col passare dei giorni, Jack dà i numeri. Sia perché colpito dalla "febbre del chiuso" sia perché non riesce a scrivere un rigo, sente nascere un inestinguibile odio verso la moglie. Che dapprima spaurisce e sopporta le scenate, ma poi, quando capisce che all'uomo ha dato di balta il cervello, cerca di tenerlo a distanza con una mazza da baseball. Ci vuol altro. Jack, che nella camera 237 ha baciato una giovane sconosciuta subito trasformatasi in una vecchia schifosa e ha visto un salone dell'albergo pieno di bella gente, è ormai in un universo parallelo: ha parlato col Diavolo in persona camuffato da barman, e dall'ex custode vestito da cameriere si è sentito incoraggiare a dare una buona lezione alla moglie e al bambino. Mentre il cuoco dell'Overlook, che era andato a svernare in Florida, ricevuto per telepatia il segnale d'allarme trasmesso da Danny, si precipita verso l'albergo, Jack ha sete crescente di sangue. Uscito, non si sa come, dalla dispensa in cui l'ha chiuso la moglie, impugnata la scure rincorre la donna e il bambino. Ma sa soltanto spaccare il petto al cuoco malcapitato: la moglie gli sfugge, e Danny riesce a far perdere le proprie tracce in un labirinto di siepi in cui il babbo cattivo si muta in statua di ghiaccio. Il "gatto delle nevi" porta in salvo madre e figlio, ma c'è, proprio alla fine, una foto allarmante: d'una festa da ballo svoltasi all'Overlook nell'estate del '21, dove appare anche Jack, giovane e sorridente. Che vorrà dire? "E' l'ultima tessera d'un puzzle", dichiara Kubrick nelle interviste. E guai a decifrarla.

Il senso del film sta infatti nell'impenetrabile congiunzione dell'essere e dell'apparire, nella compresenza dei tempi e e degli spazi, nei limiti di cui soffrono anche quanti posseggono doni paranormali. Che il piccolo Danny e il cuoco negro abbiano lo shining (uno scintillio della mente grazie al quale si rivive il passato e si hanno premonizioni: i doppiatori italiani lo chiamano "luccicanza") è infatti molto meno misterioso della metamorfosi verificatasi nel cervello di Jack. Questo è il nodo della riflessione di Kubrick, tentato dall'odissea delle cellule nel labirintico spazio mentale. Chi legge il film come un apologo sulle pulsioni distruttive dell'artista borghese che delle proprie frustrazioni incolpa la famiglia imbocca un viottolo d'occasione. Kubrick è più ambizioso d'un sociologo o d'uno psicanalista orecchiante: mira al metafisico, al lamento sulla fragilità della creatura umana, assediata dall'Oscuro, e al fascino dell'Enigma.

Il piccolo guaio è che, nonostante queste premesse, Shining resta un superbo esercizio di stile, un inchino alla moda del paranormale che non innova il giallo fantastico come accadde a Kubrick con la fantascienza ma ne sublima le convenzioni. La fattura è infatti magistrale, e basta confrontarla con quella di The Amityville borror (che racconta una storia analoga) per misurare il respiro e la tensione di Kubrick all'immaginario. Del tutto inconsueto è il disagio che egli sa trasmetterci con scenografie in cui il vuoto è popolato di presenze sinistre e con un agghiacciante crescendo degli effetti. Certamente da manuale è il suo uso del colore e dei movimenti di macchina per dare al reale trasparenze fantasmatiche. Adeguato alla sua leggenda è il piegare musiche di Bartok, Ligeti e Penderecki a leve d'allucinazione. E degni d'ogni elogio sono il ritmo, la densità, il rigore stilistico di tutto il racconto. Tutto, però, viene più a riprova d'alta intelligenza professionale che d'ispirazione poetica. Siamo nella confezione d'alta classe, con un sospetto d'intellettualismo: per cui s'applaude, ma alla prodezza.

Lo stesso può dirsi dell'interpretazione di Jack Nicholson, che fa il pazzo e la belva con un sovrappiù di smorfie poco consone all'astratto furore della composizione. Gli preferiamo la disadorna Shelley Duvall, nella sua banalità di moglie bruttina spinta anch'essa a visioni da brivido e a impugnare il coltellaccio, mentre il piccolo Danny Lloyd ci sembra, pardon, una specie di Topo Gigio che ha visto L'esorcista e sbava senza eleganza.

Corriere della Sera, 23/12/1980
Ripubblicato in Cinema '80, Editori Laterza, 1981
Corriere della Sera
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