Arancia Meccanica
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Anthony Burgess
Interventi dell'autore del romanzo sul film di Kubrick e sui temi e le proteste suscitate

Scrittore inglese, autore del romanzo da cui è tratto il film. Ha collaborato con Kubrick anche al progetto Napoleon.

Sono qui disponibili tre testi: due scritti negli anni '70, a ridosso dell'uscita del film di Kubrick e delle polemiche che lo seguirono, e uno datato 1993, di tono nettamente opposto.
Nella lettera scritta al Los Angeles Times in occasione dell'uscita del film nel 1971, Burgess si pone come difensore della libertà dell'artista e nega il legame violenza nell'arte - violenza reale riconoscendo al film di Kubrick piena legittimità artistica. In un'intervista del 1974, invece, si dimostra perplesso sull'impatto sociale del film e sulle scelte di sceneggiatura e regia operate da Kubrick.

 
Lettera al Los Angeles Times
di Anthony Burgess

Ho visto A Clockwork Orange di Stanley Kubrick a New York: per entrare ho dovuto fare a gomitate come tutti gli altri. Mi è parso che lo spettacolo meritasse tanta ressa: è in tutto e per tutto un film di Kubrick, tecnicamente brillante, arguto, puntuale, poetico, capace di schiudere allo spirito nuove prospettive. Sono riuscito a guardare il film come una totale ricostruzione del mio romanzo, e non come una semplice interpretazione; non è azzardato affermare che si tratta dell'Arancia meccanica di Stanley Kubrick, e questo è il più grande omaggio che io possa rendere alla maestria del regista.

Ma resta il fatto che il film è nato da un libro, e ritengo che alcune osservazioni sul film inevitabilmente mi riguardino. In termini filosofici, nonché teologici, l'arancia di Kubrick è frutto del mio albero.

Scrissi Arancia meccanica molto tempo fa, nel 1961 e ho qualche difficoltà a fornire delucidazioni su quello scrittore ormai lontanissimo che, dovendo guadagnarsi da vivere, era arrivato a produrre cinque romanzi (tra i quali questo) in quattordici mesi. Il titolo è la cosa più facile da spiegare. Nel 1945, al ritorno dal fronte, in un pub di Londra ho sentito un cockney ottantenne dire di qualcuno che era "sballato come un'arancia meccanica" (queer as a clockwork orange). L'espressione m'incuriosì per la stravagante mescolanza di linguaggio popolare e surreale.

Per quasi vent'anni avrei voluto utilizzarla come titolo per qualche mia opera: ne ho avuto poi l'occasione quando ho concepito il progetto di scrivere un romanzo sul lavaggio del cervello.

La stampa britannica aveva parlato con una certa insistenza dell'aumento della criminalità. I giovani alla fine degli anni Cinquanta erano agitati e cattivi, insoddisfatti del mondo del dopoguerra, violenti e distruttivi, ed è a loro (poiché sono piu' riconoscibili dei malviventi dei tempi andati) che tanti fanno riferimento quando parlano di crescente criminalità.

Che fare di questi ragazzi? La prigione o i riformatori non fanno che peggiorarli: allora perché non risparmiare il denaro dei contribuenti sottoponendoli a un facile condizionarnento, a una sorta di terapia del disgusto, che generi in loro un'associazione tra l'atto di violenza e il malessere, la nausea, o persino evocazioni di morte? Furono in molti ad approvare questa proposta (che all'epoca non era una proposta del governo, ma semplicemente un'idea espressa da singoli teorici, per quanto influenti).

Arancia meccanica doveva essere una sorta di manifesto, addirittura una predica, sull'importanza di poter scegliere. Il mio eroe, o antieroe, Alex, è veramente malvagio, a un livello forse inconcepibile, ma la sua cattiveria non è il prodotto di un condizionamento teorico o sociale - è una sua impresa personale, in cui si è imbarcato in piena lucidità. Alex è cattivo, e non solo traviato, dunque in una società organizzata in modo corretto azioni crudeli come le sue devono essere punite.

Però la sua cattiveria è umana: negli atti aggressivi possiamo riconoscere potenzialita presenti in noi, che per il cittadino non criminale si concretizzano nella guerra, nell'iniquità sociale, nella cattiveria che si esercita in famiglia, nei sogni che si coltivano nel proprio cantuccio. Alex rappresenta l'umanità in tre modi: è aggressivo, ama la bellezza, si serve del linguaggio.

E' paradossale che il suo nome si possa intendere come "senza parola", mentre egli possiede un intero vocabolario inventato, suo personale, un gergo di gruppo. Eppure non spende neanche una parola per ciò che riguarda la gestione della comunità, o l'organizzazione dello Stato: per lui quest'ultimo non è che un semplice oggetto, una cosa lontana come la luna, anche se meno passiva.

Da un punto di vista teologico, il male non è misurabile. Eppure io credo nel principio che un'azione possa essere più malvagia di un'altra, e che l'atto ultimo del male sia la disumanizzazione, l'assassinio dell'anima - il che ci riporta a parlare della possibilità di scegliere tra azioni buone e cattive. Imponete a un individuo la possibilità di essere solo e soltanto buono, e ucciderete la sua anima in nome del bene presunto della stabilità sociale.

La mia parabola e quella di Kubrick vogliono affermare che è preferibile un mondo di violenza assunta scientemente - scelta come atto volontario - a un mondo condizionato, programmato per essere buono o inoffensivo.

Nel film, così come nel libro, il male compiuto dallo Stato, facendo il lavaggio del cervello ad Alex, è molto spettacolare. Alex ama Beethoven, e ha utilizzato la Nona sinfonia come stimolo per i suoi sogni di violenza. Questa è stata la sua scelta, ma nulla gli avrebbe impedito di usare quella musica come semplice consolazione, o assumerla ad immagine dell'ordine divino. Il fatto che nel momento in cui il condizionamento ha inizio lui non abbia ancora compiuto la scelta migliore, non significa che non lo farà mai.

Ma a causa della terapia del disgusto, che associa Beethoven alla violenza, questa scelta gli è preclusa per sempre. E' una punizione che agisce a livello involontario, ed equivale a derubare un uomo - atto stupido e irrazionale - del suo diritto a gioire della visione divina.

Ciò che sconvolge sia me che Kubrick, è che alcuni lettori e spettatori di Arancia Meccanica sostengano di avervi trovato un compiacimento gratuito nel ritrarre la violenza, il che trasforma l'opera da "messaggio sociale" a mera pornografia.

Certo, senza la violenza sarebbe stato più gradevole, ma la vicenda dell'emendamento di Alex avrebbe perso forza se non si fosse potuto vedere da che cosa lo si stava correggendo. Per me, ritrarre la violenza doveva essere un atto catartico e caritatevole insieme, perché mia moglie è stata vittima di una violenza crudele e inconsulta a Londra nel 1942, all'epoca dei bombardamenti: è stata violentata e picchiata da tre disertori americani. Forse i lettori del mio libro ricorderanno che l'autore dell'opera dal titolo Arancia meccanica è uno scrittore la cui moglie è stata violentata.

Alcuni spettatori del film sono stati turbati dal fatto che Alex, malgrado la sua crudeltà, è comunque degno di affetto. Ma se noi ci disponiamo ad amare il genere umano, dovremo amare Alex come membro pur sempre rappresentativo.

Se Arancia Meccanica, così come 1984, rientra nel novero dei salutari moniti letterari - o cinematografici - contro l'indifferenza, la sensibilità morbosa e l'eccessiva fiducia nello Stato, allora quest'opera avrà qualche valore.

L'autore dice la sua su Arancia Meccanica, di Anthony Burgess
Los Angeles Times, 13 Febbraio 1972
Traduzione dall'inglese come in Arancia Meccanica, Einaudi Tascabili 351
Anthony Burgess
 
Intervista a Anthony Burgess [estratti]
di Robert Louit

Attraverso il film di Stanley Kubrick, Arancia Meccanica è diventato una sorta di mito moderno. Persone che ignoravano tutto a proposito del vostro romanzo utilizzavano il suo titolo per riferirsi ad ogni episodio di violenza. Come giudica questa situazione un po' paradossale e soprattutto pensa che il suo libro sia stato capito a fondo?
La violenza non costituiva la parte essenziale del mio romanzo. L'importante, per me, era il dibattito filosofico fondamentale sul libero arbitrio. Ho voluto mostrare un personaggio, Alex, totalmente libero e spinto dalla sua libertà verso il male, i cui gli atti di violenza erano solo una parte delle sue azioni. D'altro canto, avevo inventato a partire dall'inglese e dal russo un dialetto che faceva da schermo tra il lettore e questa violenza. Certo, si ritrova questo dialetto nel film, ma la differenza non dubitate, risiede nell'immagine: la violenza si vede. Io mi ritrovo malgrado tutto, associato alla violenza del film: è di questo soprattutto che la gente si ricorda, e il mio romanzo serve alla gente solo come promemoria. Nel libro, avevo introdotto il concetto di ultra-violenza, che non deve essere interpretata come una violenza fisica eccezionale, ma come uno stato mentale governato dall'idea di violenza. L'ultra-violenza, è infatti il risultato di una scelta, la manifestazione di una libertà. Essa ci conduce al dibattito fondamentale: lo scontro tra una libertà individuale senza freni e la pressione dello Stato moderno, quale che sia, su questa libertà.

Mi sembra che, forse a causa del film, ma anche perché nel racconto si parla in prima persona, la gente abbia la tendenza ad identificarsi in Alex caricandolo di tutti i valori positivi, mentre attribuisca allo Stato la completa responsabilità della repressione. Malgrado tutto, non penso che nel suo libro le cose siano così semplici.
Sicuramente è facile identificarsi nell'Alex molto fisico, molto sensuale, del film di Kubrick. Nel libro, si può essere solidali con Alex nella misura in cui egli è vittima della repressione, ma la mia intenzione non era di dargli interamente ragione. Come sapete, il libro è stato pubblicato in Inghilterra e negli Stati Uniti con due finali differenti - e non so quale delle due versioni sia stata pubblicata in Francia - una di queste mostrava Alex integrato nella società, desideroso di sposarsi, avere dei bambini, dedicarsi a delle attività più creative che in precedenza. Per me è la fine più giusta, in quanto desidero mostrare che la violenza, questa esplosione di energia che non trova uno sfogo positivo e si consuma in brutalità gratuite, non è che una fase dello sviluppo dell'individuo. In realtà, il successo di Arancia Meccanica dona di me un'immagine poco fedele, in quanto troverete nei miei libri poca violenza e poca rappresentazione diretta della sessualità. Sono sempre stato riservato, a volte timido, nel trattare questo tema.

[…] Lei ha già realizzato qualcosa di simile con il dialetto di Arancia Meccanica e mi pare di sapere che non voleva alcun glossario alla fine del libro.
Infatti. Con un glossario, c'è sempre il rischio che la gente vi si riferisca sistematicamente come se stesse leggendo una lingua straniera, quindi il linguaggio perde il suo statuto romanzesco. Arancia Meccanica, era programmato con molta precisione allo scopo che il lettore imparasse tutto leggendo e che conoscesse alla fine del libro qualcosa come trecento parole russe.

Lettera al Los Angeles Times, di Robert Luit
Le Magazine Littéraire, n&grad;87, Aprile 1974
Traduzione dal francese ArchivioKubrick di Rufus McCoy
Anthony Burgess

Burgess è tornato a scrivere nel 1993 sul delicato tema degli influssi negativi dei film violenti: nell'articolo che segue l'autore si dimostra pentito di aver partecipato con il suo libro (e indirettamente con il film di Kubrick) al dilagare di episodi di violenza giovanile. Considerando che nelle dichiarazioni passate Burgess si era sempre schierato in difesa dell'arte, questo scritto suona un po' falso o tardivo, a seconda se respingiamo o meno la tesi dell'influenza dell'arte.

 
Fermate la meccanica della violenza
di Anthony Burgess

Anthony Burgess è stato a lungo accusato per aver inaugurato il culto dell'aggressione con il film tratto dal suo Arancia Meccanica più di 20 anni fa. Ora ha deciso di spiegare perché ha cambiato idea e ha iniziato a credere che l'arte sia pericolosa.

Anche se Evelyn Waugh affermò che il cambiamento è una caratteristica dell'esistenza umana, le sue rigide opinioni non furono mai addolcite da questa massima. Ci sono alcune convinzioni alle quali ci aggrappiamo e a cui non permettiamo di abbandonarci: alla mia età, l'abbandono di una convinzione che faceva parte del mio essere deve essere considerato una sorta di indulgenza. Parlo della convinzione che le arti, incluse quelle minori, fossero inviolabili: che esse non potessero mai venire accusate di esercitare un'influenza morale o immorale e che esse fossero incorrotte, incapaci di corrompere e incorruttibili.

Ho cambiato opinione in proposito abbastanza di recente. Questo atteggiamento protettivo nei confronti dell'arte in realtà non era altro che un mio desiderio di giustificare gli elementi corrotti esistenti nella più grande letteratura di tutti i tempi, quella del palcoscenico elisabettiano. Era un desiderio quello di non considerare Shakespeare uno scrittore violento. Una delle sue tragedie che probabilmente non vedremo mai più rappresentata sui palcoscenici e che, di certo, non vedremo mai adattata sul piccolo schermo, è Tito Andronico. Con i suoi stupri di gruppo, le mutilazioni, le scene di cannibalismo e con la carneficina finale, essa raggiunge un livello confacente solo al più depravato film porno violento dei giorni nostri: il fatto che essa sia il prodotto dello scrittore più stimato che sia mai vissuto non mitiga l'opportunismo dozzinale di questa opera. Anche in Re Lear, l'asportazione degli occhi del Conte Gloucester sembra una concessione gratuita alla depravazione degli spettatori ("Fuori, vile gelatina").

Nella Tragedia spagnola, Thomas Kyd a Hieronimo fece tagliare a colpi di morsi la propria lingua anche se questo era un gesto troppo inverosimile per essere preso sul serio. La Tragedia spagnola in ogni caso è la progenitrice, assieme al latino Seneca, della tradizione della Tragedia del Sangue, alla quale Re Lear e Amleto appartengono. Il più grande dramma di tutti i tempi fu immerso nel sangue e storpiato dalla violenza.

Si può affermare l'impossibilità dell'esistenza di un dramma che non contenga la violenza. Una rappresentazione teatrale, persino una commedia, si basa sul gioco degli antagonismi e quest'opposizione può essere omicida. L'antagonismo deve essere risolto attraverso il pianto o il riso: è solo questo che costituisce la trama. I romanzi melliflui di Jane Austen o di una Barbara Pym si basano su un'opposizione civile che può essere risolta attraverso la ragione; il concepimento di una trama nella quale gli antagonismi si accendono senza che un solo atto violento venga sferrato richiede un'immensa integrità artistica. Nella nostra era, almeno, la violenza fisica è monopolio dell'artista minore.

Affronterò adesso un argomento per me delicato. Riconosco di essere stato responsabile, come chiunque altro, del culto della violenza che ha caratterizzato gli ultimi trent'anni. Nel 1962 pubblicai un romanzo intitolato Arancia Meccanica in cui l'interesse era rivolto ai metodi di repressione della violenza giovanile piuttosto che alla glorificazione dell'atto aggressivo. Dieci anni dopo la pubblicazione - anni caratterizzati da critiche perplesse e da un esiguo numero di lettori - Stanley Kubrick adattò il libro al grande schermo piuttosto brillantemente. La sua versione differiva dall'originale in quanto il regista enfatizzava l'aspetto visivo mentre io ero stato particolarmente attento a convertire in sonorità - nello specifico, i suoni di una lingua inventata - i cliché della confusione e del delitto. Sia nel libro sia nel film il protagonista, attraverso il lavaggio del cervello, veniva trasformato da un individuo amante della violenza in un automa che vomita al solo comparire di un pensiero violento. La domanda era questa: è ammissibile sopprimere la libera volontà per assicurare la stabilità della società? Tra gli spettatori del film non furono in molti che si resero conto dell'interrogativo: la maggior parte era troppo eccitata dalla violenza per riflettere sulla filosofia del concetto.

Come sappiamo, Kubrick e incidentalmente io stesso fummo accusati di aver raffazzonato qualcosa che assomiglia alla pornografia violenta; Kubrick ricevette dure minacce da alcuni nemici della violenza; in Gran Bretagna, diversamente dagli altri Paesi, il film venne ritirato e, non essendo stato possibile vederlo, Arancia Meccanica si è guadagnato una reputazione ancor peggiore di quella che merita. Ma, soprattutto, un grande artista cinematografico ha ammesso dinnanzi al mondo che l'arte può essere dannosa. Se Arancia Meccanica può corrompere, perché non lo possono fare la Bibbia e Shakespeare? E, invero, perché no?

Ricordo di essere tornato a Londra da New York con un paio di premi ricevuti dal New York Critic's Circle e di essere stato inviato a difendere il film a un programma radiofonico condotto da Sir James Savile, ai quei tempi un ufficiale dell'Ordine dell'Impero Britannico. Notate che l'unico tipo di approccio al film fu di attacco o di difesa: un sereno giudizio estetico allora sembrava essere fuori luogo. La mia linea di difesa fu che l'azione era anteriore all'arte, che l'aggressività era insita nell'uomo e che, quindi, non poteva essere insegnata da un libro, da un film o da un dramma. Se si desiderava credere che un libro potesse istigare alla violenza, allora la Bibbia, considerata l'espressione della Parola di Dio, poteva costituire il primo esempio.

Dagli USA giungeva la notizia scondo la quale gruppi di quattro giovani vestiti bizzarramente come i protagonisti di Arancia Meccanica avevano stuprato delle suore a Poughkeepsie mentre a Indianapolis avevano picchiato degli anziani. Continuai a negare la possibilità che il film avesse potuto istigare i giovani alla violenza, ma non ero del tutto sincero: era Shakespeare che stavo difendendo. Dal film Arancia Meccanica la gioventù non apprese l'atto aggressivo: essa era già aggressiva. Ciò che imparò fu uno stile di aggressione, un modo nuovo di abbigliarsi per far violenza, una salsa piccante per condire un'insalata fatta di calci, percosse e colpi di lama di rasoio.

Un prodotto artistico ha una qualità autorevole, uno slancio giustificativo che garantisce virtù all'imitazione. Noi sappiamo, anche se non lo vorremmo, che l'offerta di Abramo di sacrificare il proprio figlio al Signore è stata adottata per giustificare l'infanticidio e che l'atto del pluriomicida Haigh di bere il sangue delle proprie vittime aveva le sue origini in una devozione maniacale nel sacramento dell'Eucaristia. Forse una persona può vedere Amleto e poi fare cosa ha rimandato di fare: uccidere, cioè, il proprio zio. Non sappiamo se Il silenzio degli innocenti abbia promosso il cannibalismo o la folle carneficina del suo protagonista. Ci inchiniamo adesso, in ogni caso, dinnanzi a una tesi che pensavo non avrei mai accettato, quella della pericolosità dell'arte. Ai tempi dei Moors Murders (Assassini delle paludi), quando l'omicida Brady ammise di poter essere stato influenzato da Justine del Marchese de Sade, l'ultima Lady Snow disse che se il rogo di tutti i libri esistenti al mondo fosse stato necessario per risparmiare la morte di un bambino, noi non avremmo dovuto esitare ad incendiarli (naturalmente, le pellicole cinematografiche produrrebbero una fiamma migliore).

Il discorso sta andando troppo oltre: ma io sto iniziando ad accettare il fatto che, quale romanziere, appartengo al rango dei pericolosi. Ero solito cosiderarmi un innocuo arrivista della penna. Composta prevalentemente da film narrativi e dal libero sfogo dell'impressionante, l'interrogativo su fino a che punto la televisione possa essere un agente di corruzione è divenuto pressante. Con la sua trasformazione in una sorta di museo dei film e in bacheca per telefilm prodotti con pochi soldi, il mezzo di comunicazione televisivo ha già tradito parte della sua funzione iniziale. Negli Anni '50 la BBC trasmetteva drammi, non lungometraggi. Gli spettacoli principali della serata erano Checov, Rattigan o persino Shakespeare, recitati dal vivo a intervalli. Il teatro veniva portato nei salotti e il teatro non ha mai permesso gli eccessi del cinema. I polizieschi americani che adesso affollano le ore oziose prima di andare a letto devono essere violenti ma la violenza del cattivo è bilanciata da quella del buono. Eppure dubito che la violenza di tali sceneggiati abbia un impatto reale: non ci sono esseri umani, ma solo assassini e poliziotti.

Di principio - ed è un principio che sono stato disposto ad accettare oltrepassati i cinquanta - sono favorevole alla censura ai danni del piccolo schermo, anche se ritengo che il pubblico si sia già sensibilizzato nei confronti della violenza in tv, una sensibilità che nella parte finale del film è pronta a dire: "Ne ho abbastanza, basta". E improbabile che alcuni degli eccessi cinematografici vengano riprodotti sul piccolo schermo. Devo confessare che negli ultimi vent'anni ho guardato la televisione in Francia e in Svizzera, con soggiorni occasionali a New York. La televisione, come è risaputo, è migliore in Gran Bretagna, ma non esiste una grande differenza qualitativa se uno attraversa l'Atlantico o le Alpi. La televisione mondiale è omogenea, impregnata cioè di innocui sceneggiati americani. Come gli alimenti che mangiamo a colazione, essa è melliflua e il suo aspetto negativo non è nella somministrazione di acute stoccate di violenza o di stimoli sessuali quanto piuttosto nel fatto che la televisione è un mezzo di espressione che può essere o non essere volgare.

Quale semplice visitatore della Gran Bretagna sono spaventato dalla violenza della pubblicità che paga ciò che viene trasmesso prima o dopo, dall'avvilimento del linguaggio, dallo humour così scadente da far arrossire. Si rimpiangono i vecchi tempi, l'unico canale della BBC, le rappresentazioni tranquille, la ruota della fortuna, il mulo Muffin. Adesso, invece, il desiderio di foraggiare cromaticamente ogni minuto della trasmissione porta a fare uso della violenza a basso costo. Non penso però ci sia nulla da temere. Il pericolo della tv, soprattutto se i suoi standard vengono stabiliti virtualmente dagli interessi commerciali, è che essa sia agente del degrado sociale. Questo è ancor più spaventoso dell'eventualità che Arancia Meccanica raggiunga lo schermo.

Stop the clock on violence, di Anthony Burgess
The Guardian, 21 Marzo 1993
Traduzione dall'inglese di Rossana Rapisarda sul Corriere della Sera, 25 Marzo 1993
Anthony Burgess
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