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Lo sguardo vuoto dell'umanità
Un articolo di Emanuela Martini per Il Sole 24h, 1999

 
Lo sguardo vuoto dell'umanità
di Emanuela Martini

Omaggio a Stanley Kubrick: Da Alex a Hal-9000, tutti occhi senza speranza.
Questo il leitmotiv di tutti i film e dei tanti generi magistralmente percorsi e reinventati dal regista.

All'inizio fu lo sguardo. Lo sguardo scuro e inquisitivo di un reporter ventenne della rivista "Look", che era cresciuto nel Bronx in una buona famiglia e che dal padre aveva appreso la passione per la fotografia e per gli scacchi. Lo sguardo con cui catturò lo sguardo accorato dello strillone che vendeva i giornali che, nel 1945, annunciavano la morte di Roosevelt (la foto, insieme al reportage sul suo professore di inglese che mette in scena Shakespeare, gli vale i primi contatti con la rivista e poi l'assunzione). Uno sguardo coltivato anche attraverso il cinema, con i lunghi pomeriggi e le serate trascorse al Museo d'Arte Moderna a vedere i classici. Lo sguardo con cui, più di ogni altro, negli ultimi quarant'anni è riuscito a porsi davanti al nostro mondo (pur rimanendone ostinatamente isolato, recluso nel suo castello vicino a Londra) e a scandagliarlo con una freddezza, un'amarezza, una lucidità abissali.

In tutte le sempre più rare foto che ci sono rimaste di Stanley Kubrick, quello che colpisce con un'immediatezza quasi sconvolgente non è tanto la corpulenza esibita con la disinvoltura regale di un Orson Welles, né la trasandata noncuranza del vestire, ma lo sguardo: gli occhi scuri ed enormi che sembrano scrutare al di là della pagina, quasi sempre da sotto in su, mai direttamente "in macchina", ma proprio per questo capaci quasi di "avvolgere" in un'occhiata anche tutto il mondo alle nostre spalle, anche il "fuori campo", anche l'invisibile, il sommerso, l'indicibile. Forse per questo, per questa capacità di vedere oltre e complessivamente, che Stanley Kubrick, di tutti i generi che ha percorso con sovrana magnanimità e acuminata curiosità, riscrivendone ogni volta le regole, in fondo ha finito per privilegiare il fantastico.

Dei dodici film (più i due cortometraggi d'esordio e l'ultimo, forse incompiuto Eyes Wide Shut) che ha realizzato, tre sono di guerra (il primo e il penultimo, Fear and Desire e Full Metal Jacket, e lo schiacciante apologo antimilitarista Orizzonti di Gloria), due thriller (Il Bacio dell'Assassino e Rapina a Mano Armata), uno (Spartacus) è un colossal più o meno su commissione che gli consente però con il suo successo di affrancarsi per sempre dalle imposizioni delle compagnie di produzione e di ottenere, per sempre, carta bianca e controllo totale, uno è un torbidissimo, raggelato mélo familiare (se così si può definire la sua sardonica, ossessiva versione di Lolita di Nabokov), uno un disperato "romanzo" storico di formazione, ascesa e decadenza di un settecentesco, slabbrato antieroe (Barry Lyndon), e ben quattro si muovono tra fantascienza e horror. Più fantascienza che horror, forse perché il suo puntiglio scenografico e la sua inesauribile curiosità tecnica trovano più soddisfazione nell'immaginare visioni che all'occhio umano non sono diventate ancora percettibili che non nel resuscitare le ombre gotiche sepolte in ognuno di noi.

Forse perché la sua assoluta, totale disperazione nei confronti del genere umano (una disperazione tale che non tenta più neppure di confondere le acque della deriva inevitabile andando a cercare ipotesi di salvezza) non riesce più a concedere all'uomo neppure il privilegio dall'autoanalisi e dell'autodistruzione consapevoli. Jack Torrance, il protagonista di Shining (horror degli horror dal 1980 in poi), non è personaggio da crisi, ma percorre le stanze e i corridoi (e infine il labirinto) dell'Over Look Hotel in stato di perenne "medietà", transitando dall'apparente normalità alla follia omicida senza alcuna mutazione o soprassalto psicologico. Il suo sguardo incontra i fantasmi come incontrerebbe i vivi; sotto le sopracciglia perennemente inarcate, i suoi occhi hanno l'opacità ferina di un lupo mannaro impazzito.

Lo sguardo vuoto, e per questo tremendo, dell'umanità è quello che Kubrick ci ha tramandato. Anche, ovviamente e forse soprattutto, nei tre film di fantascienza: rispettivamente, "fantapolitica" (Il Dottor Stranamore), "spaziale" (2001: Odissea nello Spazio), quasi "sociologica" (Arancia Meccanica). Se 2001, nella sua epica danzata tra navicelle e astri, è forse ancora il film nel quale Kubrick tenta un approccio "umanistico", Stranamore e Arancia Meccanica restano, rispettivamente dopo 37 e 29 anni, due degli affreschi più preveggenti e allucinanti del nostro futuro-passato. Gli occhi dei quattro personaggi di Peter Sellers e dello stolido generale Sterling Hayden si intrecciano vacui nella sala da guerra del Pentagono e finiscono per convergere nella fissità "eroica" con cui il maggiore T.J. "King" Kong salta a cavallo della Bomba e dà inizio alla fine del mondo. E sull'occhio gigantesco di Alex, unico, truccato, intento a fissarci, si apre il macabro, devastante balletto di Arancia meccanica, un occhio che, "normalizzato" dopo la cura cui lo sottopone il mondo civile, sarà ancora più terreo, terrificante e vuoto.

I film di Kubrick ci guardano, e ci chiedono di guardarli (e, se abbiamo il coraggio, di "guardarci") come espressione inappellabile della fine. Non ci danno né ci chiedono speranza: non lo sguardo quasi in macchina del soldato Pyle dopo che ha sparato al sergente, né quello della ragazza cecchino finalmente catturata in Full Metal Jacket; men che meno l'"occhio" onnipresente, arrossato, non evitabile di Hal-9000, grande "cervello" e gran giocatore di scacchi dell'astronave Discovery di 2001, forse tra tutti l'unico, vero occhio dell'autore, Stanley Kubrick.

Il Sole 24 Ore, 14/03/1999
Il Sole 24 Ore
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